Dall’Ebola al Covid-19: l’emergenza senza fine della Repubblica democratica del Congo

Elvis Zoppolato
29/03/2020

Il 6 marzo la dimissione dell'ultimo malato dopo un'epidemia durata un anno e mezzo. Subito dopo i primi casi di coronavirus. Nicolò Carcano della Fondazione Avsi racconta le difficoltà anche culturali di trasmettere alla popolazione locale la gravità della minaccia. L'intervista.

Dall’Ebola al Covid-19: l’emergenza senza fine della Repubblica democratica del Congo

La pandemia di Covid-19 sta prendendo velocemente piede anche in Africa. La tensione è molto alta a causa della debolezza del sistema sanitario e della fragilità della popolazione locale.

In certi Paesi il coronavirus rischia infatti di sommarsi ad altre malattie. È il caso della Repubblica democratica del Congo, gravemente colpita dall’Ebola negli ultimi due anni. Il 6 marzo è stato dimesso l’ultimo paziente, quattro giorni dopo sono stati confermati i primi casi di Covid-19.

«Siamo tutti molto preoccupati», ammette a Lettera43.it Nicolò Carcano, regional manager della Fondazione Avsi in Congo e Sud Sudan. «La resistenza della popolazione locale a farsi aiutare può rappresentare un ostacolo».

Nicolò Carcano, regional manager della Fondazione Avsi in Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan.

DOMANDA. Quanto è durata l’ultima epidemia di Ebola?
RISPOSTA. Un anno e mezzo. Il 17 luglio 2018 è stato registrato il primo caso. Il primo agosto l’Oms ha dichiarato ufficialmente la nuova epidemia di Ebola nell’Est del Congo. L’epicentro è stato Beni, io mi trovo a Goma, a circa 200 km. Qui si è registrato un solo caso.

E ora è arrivato il Covid-19. Quanto tempo è passato?
L’ultimo paziente ricoverato presso un centro trattamento Ebola è stato dimesso guarito il 6 marzo. Da lì bisogna contare 42 giorni per dichiarare ufficialmente la fine dell’epidemia. Quattro giorni dopo, il 10 marzo, è stato segnalato il primo caso di coronavirus.

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Il rapporto tra Ong e popolazione locale non è sempre facile. Perché?Questo è il punto centrale della questione. Chi fa questo lavoro è assolutamente convinto che la gente non veda l’ora di farsi aiutare, ma è una sciocchezza, perché non è assolutamente così. Ogni tribù, ogni agglomerato umano e ogni popolo hanno la loro storia, le loro regole di condotta e le loro credenze. Tali regole andrebbero prima di tutto conosciute, e poi rispettate.

Postazione per lavarsi le mani alla frontiera con il Burundi (Getty Images)

E invece?
Moltissimi non lo fanno, perché mossi dall’idea dell’accettazione automatica: io vengo, ti sto aiutando, fatti aiutare e non intrometterti. Così ragiona l’operatore umanitario medio.

Per i locali deve essere choccante.
Immaginiamo persone cresciute nei villaggi, che probabilmente non hanno mai visto un uomo bianco né una automobile. Persone con livello di nutrizione sotto qualunque soglia di drammaticità, che mangiano una volta ogni due giorni cibi che non contengono alcuna proteina o vitamina. Improvvisamente cominciano a vedere 40 jeep al giorno, che fanno un sacco di rumore dalla mattina alla sera. Da queste macchine escono poi persone con la tuta gialla coperte fino al volto. Quando si levano la maschera, il colore della loro pelle è bianca. La prima cosa che pensa la gente locale è che si tratti di persone venute da un altro pianeta.

Degli alieni…
Sì. E non solo entrano in casa tua, ma prendono il cadavere che stavi vegliando secondo le tue tradizioni millenarie, lo portano all’esterno e lo bruciano, contravvenendo ai principi della tua cultura mortuaria. Chi non si arrabbierebbe? I cadaveri rimangono in casa, generalmente dai 3 ai 5 giorni, è questo è un rischio molto alto per la diffusione dell’Ebola. Le Ong ovviamente pensano a contenere l’epidemia, quindi devono agire in questo modo. Ma ciò inevitabilmente provoca scontri con la popolazione africana.

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Quindi che fare?
Sedersi al tavolo con le persone influenti delle diverse comunità, dai capi-villaggio ai capi spirituali, e dire: «Vi spieghiamo cosa sta succedendo, cosa dobbiamo fare contro la vostra e anche la nostra volontà, per fare sì che voi possiate continuare a vivere». Questo è mancato. Così persone già stremate e consapevoli dall’alto livello di corruzione del Paese, hanno cominciato a sospettare che l’Ebola gliel’avessimo portata noi, oppure che fossimo arrivati lì solo per rubare loro i soldi.

Lezioni su come evitare il contagio del virus Ebola a Beni, il 31 agosto 2019 (Getty Images).

La tensione è sfociata in episodi di violenza?
Altroché. Ovviamente non se la sono presa col governo, perché i loro agenti vanno via subito in questi casi; se la sono presa con chi è rimasto sul campo ad aiutarli, cioè le varie Ong. Hanno cominciato a lanciare pietre, appiccare incendi – ben tre centri di salute hanno preso fuoco – e minacciare gli operatori umanitari. Un medico locale è morto. Un disastro: attacchi continui, edifici in fiamme e totale insicurezza per il personale medico.

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Come avete reagito?
A quel punto, dopo sette mesi, i grandi finanziatori dell’iniziativa, soprattutto americani, la Banca Mondiale, l’Unicef, e altre grosse associazioni hanno chiesto alle Ong come noi, che si occupano prevalentemente di educazione, di intervenire per garantire l’accettazione comunitaria della malattia. Abbiamo ridisegnato completamente i nostri progetti: abbiamo cominciato a spiegare cosa fosse l’Ebola, perché faceva veramente paura e perché bisognava accettare il lavoro dei medici. Poi abbiamo garantito appoggio psicosociale alle famiglie che avevano avuto decessi.

Si trova un atteggiamento differente nelle città?
Assolutamente no. Non è la città che porta lo sviluppo: questi sono i Paesi dove si vede la degenerazione del capitalismo. Pochi guadagnano o rubano milioni di dollari mentre l’80% della popolazione vive nelle baracche senza acqua corrente o elettricità. Noi abbiamo in testa la città occidentale. Qui città significa anche vivere tra quattro lamiere. A Kinshasa ci sono 14 milioni di abitanti, con 35-40 gradi al giorno. Per questo appena possibile si esce per cercare un modo di mettere insieme qualcosa per pranzo. Una manciata di fagioli e riso. La speranza di vita media è di 32 anni.

Un villaggio della RDC (Getty Images).

Col coronavirus però probabilmente sarà necessario restare chiusi in casa.
Questo è un grosso problema, perché stare chiusi in casa significa morire di fame. Qui la gente non ha nulla, e per mangiare deve uscire e fare lavori fisici, tipo portare sacchi pesanti sulla schiena da un punto a un altro della città, in cambio di due monete. Rimanere in casa vuol dire restare senza nulla completamente.

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C’è minimamente la percezione di questo nuovo rischio?
La percezione comune non esiste. Anche con l’Ebola, mancava qualsiasi forma di consapevolezza. Io vivo a Goma, a 200 km di distanza da Beni, che è stato l’epicentro dell’epidemia. Venendo in ufficio, vedevo per strada la gente che si dava la mano. Mi fermavo e gridavo: «Ma che fate? C’è l’Ebola!», allora tutti si disperdevano e fuggivano lontano da me in modo che non respirassi loro addosso. Poi il giorno dopo si davano la mano di nuovo.

Come se nulla fosse, insomma…
Già, per noi è folle, per l’africano è normale. Perché ha visto guerra, carestia, fame. Speranze di vita non ce ne sono, l’educazione è quasi inesistente. Non ci si aspetta nulla dalla vita, quindi non si ha nulla da perdere. Non è stupidità, è mancanza di consapevolezza. Il ragionamento comune è «ho salutato il mio amico con la mano in mezzo alla strada fino a ieri, ora mi dicono che c’è l’Ebola, ma rimane il mio amico, quindi domani lo saluterò di nuovo». Se arrivo io bianco e gli dico che c’è un rischio, allora comincia a prenderlo in considerazione, ma solo per il tempo in cui sono con lui. Quando mi allontano ed esco dal suo raggio d’azione, l’ho visto coi miei occhi, il rischio scompare. Per questo ora siamo tutti molto preoccupati.