Perché sentiremo ancora parlare del Nagorno Karabakh
La vittoria lampo dell'Azerbaigian potrebbe essere solo l'inizio. Resta aperta la crisi umanitaria dei profughi in fuga dall'Artsakh e non è detto che l’appetito della coppia Aliyev-Erdogan sull'Armenia sia soddisfatto. Soprattutto con Putin occupato in Ucraina. E in mezzo c’è ovviamente il destino dei rapporti tra Mosca ed Erevan. Lo scenario.
Con la guerra lampo della settimana scorsa Ilham Aliyev si è assicurato il suo bel posto nella storia dell’Azerbaigian, come il presidente che ha ripristinato l’integrità territoriale del Paese. Oltre 30 anni dopo il conflitto vinto dall’Armenia che aveva portato alla separazione del territorio del Nagorno Karabakh, la regione passerà sotto il controllo di Baku. Poco importa l’esodo di migliaia di abitanti di etnia armena fin fuga da quella che era diventata la repubblica indipendente dell’Artsakh: è la legge non solo del più forte, visto che de jure il territorio conteso ha sempre fatto parte dell’Azerbaigian. Vince dunque Aliyev, con l’aiuto del potente vicino turco, quel Recep Tayyp Erdogan che già nella guerra del 2020 lo aveva sostenuto, e il disinteresse di Vladimir Putin, che impegnato nel teatro ucraino ha lasciato il ruolo da protagonisti ai due abbandonando l’Armenia. O quantomeno il primo ministro Nikol Pashinyan, con cui da tempo i rapporti si erano deteriorati.

La crisi dei profughi e l’inerzia dell’Occidente
La storia però non finisce certo qui, visto che da una parte c’è ancora la questione umanitaria e della fuga degli armeni dall’Artsakh, dall’altra non è detto che l’appetito della coppia Aliyev-Erdogan sia del tutto soddisfatto, e in mezzo c’è ovviamente il destino dei rapporti tra Mosca e Erevan. In teoria il problema dei rifugiati è il primo e più semplice da risolvere, con l’Armenia che naturalmente non può fare tutto da sola, dipendendo dagli aiuti internazionali. Le decine di migliaia di persone già arrivate attraverso il corridoio di Lachin necessitano di prima assistenza e di aiuto sul medio periodo. Il Paese però non solo non è stabile politicamente, ma non è economicamente in grado di reggere l’impatto di decine di migliaia di profughi. Per ora non si è mosso molto e non c’è da stupirsi, se è vero che per nove mesi, tra l’inerzia dei peacekeeper russi, Erevan ha sollecitato l’intervento occidentale contro la chiusura del corridoio di Lachin e alla fine si è dovuta arrendere di fronte all’intervento armato azero: ferme le Nazioni Unite, ferma l’Europa, fermi gli Stati Uniti.

Le promesse di Aliyev e le mire di Baku e Ankara sul corridoio di Zengezur
Aliyev ha promesso agli armeni del Karabakh garanzie di sicurezza e rispetto dei diritti, il risultato è però quello che si sta vedendo, con la fuga di massa e la paura, motivata o meno, di pulizie etniche. Qui pesa naturalmente il retaggio dei conflitti passati. E anche su quello che potrà succedere nel prossimo futuro è il timore a dominare, basta guardare a un altro corridoio, quello di Zangezur, che potrebbe collegare l’Azerbaigian, attraverso la provincia meridionale armena di Syunik, alla regione sempre azera di Nakhchivan, che confina a sua volta con la Turchia. Il progetto è da tempo supportato sia da Aliyev sia da Erdogan e l’indebolimento della posizione di Erevan potrebbe accelerarne la realizzazione, sempre con i suddetti spettatori occidentali che negli ultimi anni si sono preoccupati poco o nulla dello spostamento di vecchi e nuovi confini nel Caucaso. A eccezione di quando c’è in mezzo la Russia.

Aumenta la tensione tra Mosca ed Erevan
Il Cremlino da parte sua sta lasciando cuocere nel proprio brodo Pashinyan, aspettando un cambio al vertice che, visto il clima di proteste, potrebbe arrivare a breve. Anche se l’opposizione armena non è un blocco granitico. L’arresto dell’oligarca filorusso dell’Artsakh Ruben Vardanyan sta aumentando le frizioni tra Mosca e Erevan, con l’ala filogovernativa un po’ schizofrenica che da un lato aspira ad abbandonare l’orbita russa, dall’altro rimprovera il non intervento nell’ambito dell’Organizzazione del contratto di sicurezza collettivo (Csto) che raggruppa un pugno di ex repubbliche sovietiche. In realtà però, come accaduto nel conflitto del 2020, l’intervento in Artsakh non era e non è previsto, dato che si tratta di un territorio indipendente e non di uno Stato aderente al Csto. I russi hanno comunque la base militare a Gyumry, nel nord del Paese, almeno sino al 2044, da dove sarà difficile buttarli fuori, soprattutto in un momento in cui Erevan non pare in grado di poter dettare condizioni.