Professionisti precari e dimenticati: la lotta delle partite Iva
Compensi irrisori o in visibilità. Assenza o quasi di tutele. Disponibilità H24. E un regime fiscale sfavorevole. La savana dei freelance.
Vivere da precari, da professionisti certo, ma pur sempre precari. Ieri, come oggi, senza alcuna novità.
Mentre i rider ottengono qualche vittoria sul fronte dei diritti, c’è una schiera di lavoratori autonomi, le note partite Iva, che vivono in una condizione di moderno sfruttamento. Hanno nella maggior parte dei casi compensi inadeguati, non godono di un sistema di welfare e per molte di loro una pensione dignitosa è solo un miraggio. E questo nonostante un impegno spesso h24 per rispondere alle richieste del committente.
Sembra il copione perfetto per un film di Ken Loach. In realtà è il quadro di una situazione drammatica che, di governo in governo, sembra interessare poco. Anzi, le normative vengono rese più complicate, come avvenuto anche nell’ultima legge di Bilancio approvata a dicembre.
PARTITE IVA UNITE NELLA DISGRAZIA
Dietro l’etichetta di lavoratori autonomi (in Italia sono 5,3 milioni) di freelance, c’è una quotidiana battaglia. A volte davvero una lotta per la sussistenza. Nemmeno sul fenomeno delle “finte partite Iva”, ossia chi è costretto ad aprirsela per iniziare un lavoro di fatto subordinato, si sono registrati passi in avanti. Tutti annunciano di voler risolvere la questione, ma tutto resta fermo. Anzi, secondo il giudizio degli esperti, la flat tax, entrata in vigore con la manovra del fu governo gialloverde, ha favorito il ricorso alla partita Iva: una sorta di incentivo. Una semplificazione fiscale a fronte di una sorta di accettazione della precarietà. Tanto che nel primo trimestre 2019 ne sono state aperte oltre 100 mila, 400 mila nell’intero anno. Un autentico boom.
Tra molte partite Iva e i rider spesso l’unica differenza sta nell’assenza dell’algoritmo
Anna Soru, presidente di Acta, l’associazione dei freelance, mette comunque in guardia sulle distinzioni tra tipologie di partite Iva: «La narrazione è sempre che chi sceglie davvero la partita Iva se la cavi, mentre chi se la trova imposta abbia dei problemi», spiega a Lettera43.it. «Il punto non è questo: anche chi ha davvero scelto di lavorare come autonomo deve affrontare gli stessi problemi».
IL DIRITTO NEGATO ALLA DISCONNESSIONE
Dunque, ogni giorno un freelance sa di dover cercare lavori tali da cumulare qualcosa che somigli a uno stipendio a fine mese. Senza guardare ad alcun orario di lavoro, senza alcuna possibilità di distrazione. «Il lavoro delle partite Iva non termina mai.
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Non c’è diritto alla ‘disconnessione’, il lavoratore non può distaccarsi dal proprio lavoro neanche un attimo», conferma Davide Serafin, esperto del settore, autore del libro Senza più valore (edito da People) e responsabile della campagna Giusta paga. In questo, dunque, c’è una comunanza anche con i rider, spesso finiti al centro delle cronache come per la recente sentenza su Foodora: l’unica differenza è l’assenza dell’algoritmo che controlla la loro disconnessione.
IL NODO DELLE RETRIBUZIONI INADEGUATE
Il lavoratore autonomo si scontra con un vero, grande, scoglio: la retribuzione inadeguata. «Per i freelance non c’è una contrattazione sul minimo di compenso», fa notare Soru. «La retribuzione tende sempre più al ribasso, perché viene decisa dal committente». Una soluzione per mitigare il problema ci sarebbe: un freelance dovrebbe essere pagato di più per le proprie prestazioni, visto anche che l’azienda non ha costi fissi legati ai contratti e sfrutta un oggettivo risparmio. In questo modo il lavoratore potrebbe bilanciare, con un guadagno maggiore in determinati giorni, la giornata in cui non svolge alcuna attività. E qui il cortocircuito è servito: il freelance viene pagato di meno e in più ci sono giornate in cui non lavora.
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La presidente di Acta spiega come la questione valichi i confini italiani: «L’Unione europea è contraria alle tariffe minime, perché violano la concorrenza. Ma è una cosa ridicola. Il tema dei compensi deve essere affrontato, senza giochi al ribasso. Anche perché, va sottolineato, un compenso equo fisserebbe una linea di demarcazione per una trattativa tra committente e lavoratore».
SE L’UNICO GUADAGNO È IN VISIBILITÀ
Serafin aggiunge un elemento di riflessione ulteriore: «Quello autonomo è un lavoro che a volte non viene neanche pagato persino se il datore di lavoro è pubblico. Parliamo di professionisti, addirittura ordinisti, che vincono incarichi con contratti di sponsorizzazione, per la pubblica amministrazione. La giustificazione? Guadagnano in ‘visibilità’». Casi limite e anche limitati, ma che inquadrano il contesto. La domanda è una: come si è potuto raggiungere questo punto di non-ritorno? Per Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro all’Università Bocconi, c’è un problema normativo: «Per troppo tempo il lavoro autonomo è stato completamente ignorato dal legislatore, rendendolo così il bacino di sfogo delle forme più precarie e mal retribuite del lavoro utilizzato dalle imprese». Per il futuro non si scorge niente di miracoloso: «Tanti giovani sono costretti ad aprire la partita Iva per svolgere attività sostanzialmente subordinate. Quanto al vastissimo mondo dei collaboratori autonomi, ci si è occupati solamente dei cosiddetti rider, i ciclofattorini del cibo, introducendo così un’ulteriore frattura nelle tutele del lavoro».
SCORDATEVI IL WELFARE
Un altro snodo fondamentale è quello del sistema di welfare: la pensione resta un miraggio. Il pagamento dei contributi è un problema dagli autonomi, sottolineano dall’associazione dei freelance: specie i più giovani temono di non avere la possibilità di godersi la pensione. Anche per l’indennità di malattia c’è una distanza siderale tra lavoratore dipendente e autonomo. Tanto da poter affermare che una malattia lunga, di più mesi, non garantirebbe alcuna possibilità di sussistenza a una partita Iva.
Il sistema del welfare è concepito per il lavoro dipendente e dopo è stato allargato agli autonomi, a cui arriva solo un pezzetto
Anna Soru, presidente Acta
Il giudizio di Soru è tranchant: «Non c’è un contributo per vivere in condizioni accettabili. Il sistema del welfare è concepito per il lavoro dipendente e dopo è stato allargato agli autonomi, a cui arriva solo un pezzetto». Piccolo. Lo stesso vale per la maternità: una lavoratrice autonoma deve aggrapparsi al pregresso contributivo per averla. Con un’aggravante: i versamenti in diverse casse previdenziali, come accade facilmente per i freelance, non sono cumulabili.
IL REGIME FISCALE SFAVOREVOLE
Come se non bastasse c’è un capitolo a parte che concerne il fisco. «Una disparità molto grande di cui nessuno parla è a livello di imposta sulle persone fisiche», sottolinea Serafin. «I lavoratori autonomi sono sottoposti a un regime fiscale sfavorevole a causa della diversità della detrazione, che è minore. Una differenza di trattamento rispetto al lavoro dipendente che non può essere spiegata dalla propensione all’evasione». Stando alle dichiarazioni dei redditi 2018, le partite Iva hanno versato 5.091 euro di Irpef contro i 3.927 dei lavoratori dipendenti e i 3.047 dei pensionati. In questo scenario, sono molti i candidati per un ruolo in un futuro film di Ken Loach. Questa volta ambientato in Italia.